QUALCHE ANNO FA, IN UN RAPPORTO SUL CARCERE E SULLE SUE CONTRADDIZIONI, MI RIPROMETTEVO DI RIPARLARNE PER APPROFONDIRE IL PROBLEMA.
L’OCCASIONE VIENE ADESSO DA UN EPISODIO DI CRONACA CHE RIGUARDA VIOLENZE E ADDIRITTURA TORTURE SUI MINORENNI DETENUTI A MILANO.

Un “sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni”. Arrestati 13 agenti penitenziari, altri 8 sospesi dal servizio, almeno 12 minorenni vittime che per paura non parlavano di ciò che subivano. Una pagina sconcertante per le istituzioni civili, ha detto il procuratore di Milano. E il dubbio che in altre carceri ci siano analoghe violazioni dei diritti umani (i precedenti non mancano, e le proteste neppure).

Proteste in un carcere minorile italiano

Difficile arrivare a giudizi imparziali su questi fatti se non si conoscono bene le condizioni in cui si trovano le carceri in molti paesi del mondo “civile”. Luoghi che i principi costituzionali vorrebbero dedicati alla rieducazione, e dove invece si riesce ad attuare – ma non sempre, né bene – soltanto il contenimento forzato di chi ha trasgredito la legge e deve essere punito per garantire la sicurezza sociale.

Il carcere è l’unica “istituzione totale” per contrastare la devianza sopravvissuta dopo la chiusura dei manicomi (almeno, in molti paesi). E ne soffre tutte le caratteristiche negative: spersonalizzazione di chi è privato della libertà fisica ma anche psicologica, regole rigide con perdita di diritti elementari della vita quotidiana, perdita della fiducia e della speranza riguardo al futuro.

La conseguenza è il malessere e la sofferenza sia dei detenuti (e questo da molti è ritenuto normale, anzi doveroso) ma anche di chi deve custodirli. Gli agenti sono pochi, mal pagati, sottoposti a turni massacranti, esposti alle violenze interne e alle pressioni esterne, e non sono formati a reagire a condizioni estreme, per cui alcuni si lasciano andare a risposte altrettanto violente. Questo non giustifica certo l’aberrazione di quanto successo nel carcere minorile di Milano (e forse succede anche in altre carceri), ma aiuta a capirne le cause.

Si aggiunga il sovraffollamento di detenuti, che di per sé sollecita insofferenze e violenze. Troppi da controllare da troppo pochi controllori, e la dinamica perversa è quasi inevitabile. Medici, psicologi ed educatori troppo pochi anch’essi e impotenti di fronte a problemi ingestibili in questo tipo di istituzioni restrittive. Dirigenti che cambiano spesso, altrettanto impotenti a risolvere problemi organizzativi che sfuggono di mano. Altro che rieducazione… neppure la convivenza minima può essere garantita.

Alcune considerazioni, in aggiunta a quelle già esposte nel precedente rapporto, qui con riferimento al settore minorile.

Le carceri minorili sono piene (troppo) di adolescenti che hanno commesso reati gravi, per i quali non sono possibili le misure alternative previste dalla legge: affidamento alle famiglie, o ai Servizi Sociali con specifiche prescrizioni o collocazione in comunità rieducative. In molti casi, specie se minorenni stranieri, non ci sono famiglie valide a cui riaffidarli (sono spesso la vera fonte della devianza, o mancano del tutto), né prescrizioni – studio, lavoro – che possano essere verificate affidabilmente dagli Assistenti Sociali, né comunità rieducative con abbastanza posti per accoglierli.

Il fatto che queste comunità siano troppo poche, specie nelle regioni con maggiori quote di devianza, è un problema non giudiziario, ma di programmazione delle politiche sociali, a fronte di un gran numero di “case di riposo” per anziani o disabili fisici e psichici che sono meno costose e assicurano ai gestori più sicuri profitti. Lo Stato non può, o non vuole, assumersene il carico in proprio, infatti le comunità per minorenni pubbliche sono una rarità in tutti i territori. Eppure queste strutture sarebbero le vere alternative sia al carcere, sia alla (finta) clemenza o alle amnistie. E assicurerebbero il diritto costituzionale alla rieducazione, oltre che il dovere di proteggere la società da chi trasgredisce le norme, che neppure il carcere riesce ad adempiere.

All’interno delle strutture di detenzione – che dovrebbero ospitare solo i casi per cui nessuna alternativa è possibile – andrebbe aumentato il personale di vigilanza, cioè gli agenti penitenziari, incentivandone, anche economicamente, il lavoro e formandoli adeguatamente. Pure andrebbero aumentate, di quantità e presenza oraria, valide e ben preparate figure educative e psicologiche a supporto non solo dei detenuti ma anche per il personale di custodia sottoposto a stress continuo.  

Tutto questo renderebbe le carceri luoghi dove si sconta una pena per i reati commessi, ma al tempo stesso si attuerebbe una vera prevenzione della pericolosità sociale e delle recidive; che altrimenti si moltiplicano, insieme agli atti di insofferenza, di autolesionismo, in troppi casi di suicidio dietro le sbarre. Un tragico autolesionismo dell’intera società “civile”.