NEL VOSTRO MONDO SI SUSSEGUONO GIORNATE CHE RICORDANO I DIRITTI DELLE DONNE, DEI BAMBINI, DEGLI OMOSESSUALI, DI ALTRE CATEGORIE ‘DEBOLI’…
QUESTA SETTIMANA SONO STATI RICORDATI I DIRITTI DEI DISABILI.

Per inviare il rapporto al mio pianeta su questo argomento mi sono ben documentato. E ho scoperto che il termine disabile è la versione moderna di tanti altri vocaboli che nel tempo hanno definito le persone a cui manca qualcosa: l’uso di una parte del corpo, o di una capacità, o di una funzione mentale, che gli altri ‘normali’ hanno.

Questi ‘diversi’ in passato erano chiamati handicappati, oligofrenici, frenastenici, deficienti, ritardati, insufficienti mentali. Oggi sono denominati “diversamente abili”. Termine che comunque rimarca la differenza, pur lasciando intendere che qualcosa di buono l’avranno… vai a scoprirlo.

Prima per questi ‘diversi’ c’era l’emarginazione. Se alunni, isolati in classi speciali; se adulti ricoverati in strutture tutte per loro.
Poi si è parlato di ‘inserirli’ e ‘integrarli’ nella società – che però vuol dire aggiustarli, per quanto possibile, al fine di farli partecipare in qualche forma al mondo ‘normale’.
Oggi si parla di ‘includerli’ nella società, che si deve adattare per accoglierli.

Ma come si realizza questa inclusione dei ‘diversi’?

Anzitutto evitando di attribuire etichette generali della cui dannosità ho detto in un precedente rapporto.
La disabilità può essere di tipi molto diversi. Può essere fisica o psichica; temporanea o stabile; congenita o subentrata nel tempo. E le conseguenze sulle possibilità di adattarsi e vivere una vita accettabile saranno ovviamente molto diverse.

Se la stessa etichetta vale per tutti, la conseguenza è che si prova compassione per tutti allo stesso modo. Ma non è di compassione generica che c’è bisogno.

In alcuni paesi, tra cui il vostro, si è provato a prevedere per legge nelle assunzioni al lavoro una riserva di quote per i disabili. Ma spesso questo viene fatto per principio indistinto, a prescindere dal tipo di disabilità e senza valutare le competenze specifiche disponibili. Così si finisce col costringere chi è assunto in base alla riserva di posti a fare lavori per cui non è adatto, mettendolo ancora più in difficoltà e a rischio di ridicolo.

Per supportare correttamente la disabilità bisogna comprenderla nelle sue specificità.

Gli strumenti possono essere dei provvedimenti ‘dispensativi’.
Alcuni sono evidenti: non assegnare compiti da svolgere oralmente a chi ha disturbi del linguaggio, o visivi per chi non vede o vede male. Altre dispense sono più discutibili, come non assegnare compiti scritti a certe categorie di alunni, o non interrogarli in pubblico. La vita quotidiana poi non consentirà queste ‘dispense’: in molte situazioni i compiti devono essere fatti per iscritto (per esempio, preparare una domanda, compilare dei moduli) o davanti ad altri che ascoltano. Non sempre i ‘diversamente abili’ potranno essere esentati da prestazioni che consentono di integrarsi davvero nella realtà comune. Altra cosa è che queste prestazioni possano essere eseguite anche in modo parziale o imperfetto, e che gli interlocutori siano capaci di accettarlo. A questa accettazione dovrebbero essere educati i ‘normali’, fin dalla scuola.

I mezzi più frequentemente usati per supportare la disabilità sono quelli definiti ‘compensativi’: la protesi per chi ha arti mancanti o carenti, gli scivoli e i sollevatori per le sedie mobili, i sottotitoli nei programmi televisivi e l’interprete della lingua dei segni per i sordi, l’ingranditore per chi non legge bene i caratteri piccoli, la calcolatrice per chi soffre di ‘discalculia’. E così via, spesso ricorrendo a sofisticate tecnologie che compensano al meglio le funzioni carenti.

Questi strumenti sono utilissimi quando non ci sono alternative. Se invece le alternative ci sono e non vengono offerte, si corre il rischio che si perda la possibilità di recuperare ciò che manca, almeno entro i limiti in cui è possibile. L’ingranditore che compensa le difficoltà del bambino dislessico può distoglierlo dalla possibilità di acquisire le capacità per leggere autonomamente. Poi dovrà farne uso per sempre, e quando non lo avrà a disposizione dovrà chiedere a qualcuno di leggere per lui il cartello o l’avviso in caratteri piccoli, evidenziando ancora di più la sua diversità. Lo stesso per il ‘disgrafico’ che si abitua a scrivere al computer anziché con la penna: dovrà avere sempre con sé un tablet, e se questo manca o è scarico non avrebbe modo di scrivere in modo che sia leggibile dagli altri.

Il mezzo compensativo va bene se la abilità che compensa non può essere in alcun modo incrementata. Ma lo scopo dell’educazione è quello di usare lo strumento tecnologico non come fine ma come mezzo per sfruttare le potenzialità residue e migliorare le competenze, per quanto possibile per quella persona.

Ben vengano le giornate che ricordano i doveri della società verso i disabili. Sono utili se sensibilizzano tutti i ‘normali’ (genitori, compagni di scuola e di gioco, colleghi di lavoro) ai bisogni educativi e di supporto materiale e sociale di chi ha qualcosa di ‘diverso’: fisicamente o mentalmente, temporaneamente o definitivamente.

La vera inclusione nella società dei disabili (e delle altre categorie di ‘diversi’) si realizzerà quando tutti saranno accettati per quello che possono dare. E ciascuno sarà valorizzato per i talenti che ha e può mettere al servizio della comunità. Anche se questi talenti sono ridotti o diversi rispetto a quelli degli altri.