LO SPUNTO PER LA RIFLESSIONE DI QUESTA SETTIMANA VIENE DA UNA CONFERENZA TENUTA ANNI FA DA WILLIAM URY, UN MEDIATORE INTERNAZIONALE DI GRANDE ESPERIENZA NELLA SOLUZIONE DEI CONFLITTI TRA I GRUPPI SOCIALI.

La storia, citata come esempio di mediazione, è peraltro ben nota da tempo.

Un cammelliere lascia in eredità ai suoi tre figli 17 cammelli, così divisi: metà al primo, un terzo al secondo, un nono al terzo. Ma 17 non si può dividere per due, né per tre, né per nove. Né si possono dividere in parti i cammelli… I figli cominciano a litigare, poi, disperati, si rivolgono per consiglio ad una vecchia saggia. Questa riflette a lungo, poi dice: “sembra un problema insolubile, però vi posso aiutare. Vi presto il mio cammello, vedete se vi è utile. Poi me lo restituirete”. In effetti, 18 cammelli sono facilmente divisi: 9 al primo figlio, 6 al secondo, 2 al terzo; in tutto 17. Ne avanza uno, quello prestato dalla vecchia saggia, alla quale viene restituito. E tutti sono contenti.

La morale della storia è che per risolvere situazioni conflittuali bisogna ristrutturare i termini del problema, uscendo dagli schemi consolidati. Se gli eredi del cammelliere continuano nella strategia usuale, quella di dividere il totale ricevuto per trovare ciò che spetta ad ognuno, la soluzione resta impossibile, e la lite inevitabile. Uscendo dallo schema come propone la vecchia saggia la soluzione diventa facile e pacifica.

Lo stesso spiegava lo psicologo Watzlavick col famoso “problema dei nove punti”

Il problema ……….. e la soluzione

Le istruzioni sono: “congiungere tutti i 9 punti tracciando solo 4 linee rette”.

Restando sempre all’interno dello schema quadrato ideale che i nove punti formano percettivamente, la soluzione è impossibile. Diventa invece possibile se si decide di partire dall’esterno di questo quadrato, cosa che peraltro non è vietato dalle istruzioni. Lo vietano i confini automatici della percezione, da superare perché costituiscono un errato pre-giudizio che rende impossibile trovare la soluzione.

Come il cammello in più che consente le divisioni altrimenti impossibili.

Molti conflitti cognitivi e sociali nascono dall’esecuzione di regole consolidate ma che non sono appropriate per gli specifici problemi, e solo superando queste “regole” automatiche i problemi si possono risolvere.

Nella stessa conferenza, Ury portava un altro esempio di come si possono risolvere i problemi sociali.

Osservando una tribù di boscimani africani, molto arretrati ma per nulla stupidi, si accorse che quando si creavano dei conflitti potenzialmente pericolosi per prima cosa i saggi che governavano la tribù facevano requisire tutte le armi, che venivano depositate in un luogo sicuro e sorvegliato.  Poi la tribù si riuniva, senza comunicazioni con l’esterno, e si discuteva ininterrottamente del problema conflittuale fin quando veniva trovata una soluzione. Quindi si riconsegnavano le armi e si riprendeva la vita normale del villaggio: ricerca del cibo, rapporti sessuali, vita familiare.

I litiganti senza armi, senza cibo e senza vita familiare erano motivati a trovare un accordo ad ogni costo, rinunciando ognuno a qualcosa pur di uscire da una situazione scomoda e insopportabile per tutti.

Allo stesso modo i litigiosi cardinali della chiesa cattolica venivano rinchiusi e isolati in conclave finché si accordavano sulla elezione del nuovo papa.

Se questo si applicasse ai conflitti tra nazioni, la prima cosa da fare sarebbe disarmare gli eserciti delle due parti (senza invece fornire loro più armi, come spesso si fa) e metterli davanti ad un tavolo continuo di negoziato, magari alla presenza di arbitri internazionali ma senza collegamenti con l’esterno. Non si dovrebbe deliberare altro della vita normale dei paesi in conflitto fin quando i motivi del conflitto non sono risolti con un accordo che può andare bene per entrambe le parti.

Quando si litiga, ognuna delle parti non riesce a superare il proprio punto di vista automaticamente pre-giudiziale, non ha fiducia nella buona fede negoziale dell’altra, non riesce a comunicare in modo adeguato, non sa comprendere o gestire le emozioni che entrano in gioco.

La mediazione, obbligando ad “ascoltarsi” reciprocamente, fa comprendere a ciascuna parte il punto di vista dell’altra, e fa intravedere possibili soluzioni non previste: come nella storia del cammello in più, e nel problema dei nove punti.

Si instaura un clima di fiducia reciproca, si scoprono e rielaborano le emozioni latenti. La comunicazione diventa adeguata all’obiettivo agevolando una relazione costruttiva.

Ciascuna parte valuta i benefici futuri derivanti dall’accordo più di quello cui deve rinunciare.

Tutti capiscono che la pace è sempre meglio della guerra, e si ottiene contrattando, difendendo le proprie posizioni ma non cercando di eliminare l’altro. Perché chi è sconfitto, e ha rischiato di essere eliminato, cercherà sempre una rivalsa. Se non ce la farà a reagire da solo, cercherà aiuti in altri e così il conflitto si allarga, danneggiando anche il primo vincitore, perché nessuno può vincere sempre e comunque, se altri si coalizzano contro.

Questo vale per i conflitti familiari, per quelli condominiali, sociali, politici.

Lo suggeriscono i mediatori internazionali come quello da cui ho preso spunto per queste riflessioni.

Ma lo dicevano gli antichi saggi cinesi: Confucio invitava a non essere arroganti, a non pretendere troppo nei conflitti, perché “andare troppo oltre è come non arrivare”.

La saggia mediazione è stata praticata da molti governanti intelligenti, e dai veri pacifisti.

Ma quante famiglie, quanti gruppi, quanti popoli sono in grado di imporre a chi li guida di seguire questa strada, anziché farsi danneggiare dai conflitti nei quali loro malgrado vengono trascinati?

E quanti sapranno trovare compromessi intelligenti uscendo dagli schemi pregiudiziali – vale a dire, trovando il “cammello mancante” che risolve il problema?

Dalla risposta a queste domande dipende il futuro degli umani sempre impegnati in conflitti, prima di esserne travolti in modo irreparabile.