ENTRANO NEL VOSTRO VOCABOLARIO TERMINI DERIVATI DA ALTRE LINGUE, SPESSO SENZA CAPIRNE BENE IL SIGNIFICATO…  RANDOMIZZATO, PERFORMANTE, KILLERAGGIO, LOGGATO, E TANTO ALTRO. ADESSO COMINCIAMO A SENTIRE E LEGGERE LA PAROLA “SKILLATO”.

Bisogna essere skillati nell’ambiente target“. Questa frase, commenta il libro Gergo telematico , è stata scritta da “esseri quasi normali”, “senza nemmeno arrossire al pensiero di quello che dicono”.

L’ambiente cui si riferisce questa letterale traduzione dell’inglese skilled è quello del lavoro aziendale, in cui è nato. Ma si è diffuso anche nella scuola, nello sport, e di recente anche nei videogiochi.

Persino l’Accademia della Crusca si sente in dovere di darne una definizione: “Competente, esperto, dotato di particolari abilità e qualificato in un dato campo”.

Quindi “non skillato” (in inglese unskilled) significa inesperto, incapace, senza abilità…  Insomma una sorta di “dis-abile”, o “diversamente abile” come si suole dire adesso. Lo dicevo in un post precedente, ricordando che a nessuno piacerebbe essere definito così perché non sa nuotare o andare in bicicletta, e magari sa fare tante altre cose.

L’abilità posseduta da uno skilled potrebbe esser quella di saper parlare in pubblico, che però può servire anche per imbonire e imbrogliare che ascolta (molti politici sono abilissimi in questo). Skilled nel proprio contesto (illegale) è chi sa aprire un’auto da rubare anche senza le chiavi, o una cassaforte senza esserne il proprietario. Oppure stampare banconote false. O ricostruire graficamente al computer scene finte per diffondere notizie false.

In realtà ognuno ha le sue competenze, alcune dalle prime età di sviluppo, mentre altre le può acquisire anche dopo, in età adulta. Il problema è quali abilità servono per vivere nel proprio ambiente, e come vengono usate. Se a fini socialmente utili, o per danneggiare gli altri (e allora sarebbe meglio non averle apprese).

Oggi si parla tanto di “life skills”, competenze che servono per vivere bene, oggetto persino di proposte di legge che intendono farle insegnare a scuola. Sono chiamate anche “soft skills for life” – così le definì l’OMS trent’anni fa – o  competenze “non cognitive”, in (errata) contrapposizione a quelle che servono per gli apprendimenti scolastici.  Per sviluppare le life skills si propongono sperimentazioni senza che sia chiaro a tutti cosa siano davvero e come si insegnano.

E chi non è “skillato”  in tal senso accumulerebbe una incompetenza (o dis-abilità) ulteriore: quella di non saper vivere bene. Ma la vita è una somma di competenze, come per fare i conti o suonare la chitarra? e ci sono in ogni scuola maestri di vita, addestrati a loro volta da altri maestri, tutti consapevoli di quali sono le capacità che servono per vivere bene nella comunità sociale? Ricordiamo che queste capacità sono legate ai valori che alla vita si attribuiscono.

Ci sono famiglie e ambienti sociali che  hanno insegnato ai loro piccoli, con l’esempio più che con le parole, come si vive bene e il valore di stare in armonia con gli altri. Lo hanno confermato ricerche  in piccoli paesi (cosiddetti “arretrati”) o in tribù primitive. Mentre contesti scolarizzati (e presunti “civili”) producono figli egoisti e competitivi, abili a sfruttare e prevaricare gli altri. Pensano siano queste le competenze sociali, perché sono lo specchio dei valori sociali prevalenti. L’affermazione di sé stessi ad ogni costo. L’iperattività scambiata per impegno senza soste. La cooperazione quando serve anche ai propri fini. La comunicazione solo di ciò che conviene. La capacità critica non per evitare l’omologazione, ma per aggredire chi la pensa diversamente.

Saprà la scuola andare contro corrente, e insegnare alle giovani generazioni abilità utili alla convivenza solidale, quelle che davvero farebbero vivere bene tutti?

Tutti socialmente skillati!