CONTINUIAMO A SENTIRE INTERMINABILI DISCUSSIONI SUGLI SBARCHI DEI MIGRANTI E SULLA LORO ACCOGLIENZA.
MA PERCHE’ TANTI LASCIANO I LORO LUOGHI DI ORIGINE E INIZIANO VIAGGI DELLA SPERANZA? QUAL È IL MOTIVO E IL SENSO DEL PARTIRE?
Partire, ma non per viaggi di lavoro, o di piacere, con una meta precisa e sicura. Partire per allontanarsi dal luogo dove si vive male. Per andare dove si spera di vivere meglio. Un “dove” non conosciuto, né precisato.
Viaggio di sola andata, senza prevedere un ritorno.
Nel libro “Partire” di Tahar ben Jelloun si trova questo dialogo:
“Cosa vuoi fare da grande?”
“Partire”
“Partire? Ma non è un lavoro”
“Una volta partiti, un lavoro si troverà”
Queste stesse parole ripetevano gli emigranti italiani che s’imbarcavano per il “nuovo modo” per cercare lavoro e benessere. E non molto diversi sono stati i pensieri dei circa 6 milioni di italiani (per lo più giovani) che si trovano all’estero per cercare una fortuna che in patria non riuscivano a trovare.
Un altro dialogo riportato da Franz Kafka nel racconto “la partenza” è significativo per rappresentare una condizione umana diffusa e sempre attuale.
“Dove va con il suo cavallo?”
“Non lo so”, purché sia via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta.”
“Dunque conosci la tua meta”,
“Sì, l’ho detto no? Via-di-qua… ecco la mia meta”
La conversazione sarebbe andata allo stesso modo anche con Abramo e con i tanti trasmigratori che, in tutte le epoche del vostro mondo, hanno cercato una vita migliore “altrove” dal loro luogo di origine.
Sostituendo il cavallo del racconto kafkiano con i barconi o i barchini, la conversazione potrebbe svolgersi con i migranti che traversano il mare. Verso una meta che non è una meta, ma solo il desiderio di una meta. Diversa dal dolore, dalla miseria, dalla guerra, dalla fame.
Non importa se si lascia la propria casa. Perché, come diceva il poeta-viaggiatore giapponese Matsuo Bashō, per quelli che viaggiano sempre “la casa è ovunque li portino i viaggi”.
Non importa se si rischia la vita, che tanto non vale la pena di vivere in condizioni disumane. L’antico detto “partire è un po’ morire” diventa per loro “Partire per non morire“.
Non importa se mogli incinte possono essere stuprate ancor prima di partire o figli piccoli scomparire tra le onde di un mare infuriato. Un mare che magari chi fugge dal centro dell’Africa non aveva mai visto, e che rischia di vedere per la prima e ultima volta.
L’importante è fuggire. Non importa dove e per far cosa. Partire diventa una ragione di vita.
Partire, sperando che qualcuno tolleri la tua presenza e ti accolga, anche se in accampamenti affollati e maleodoranti. Che qualcuno permetta ai tuoi figli di studiare, oltre che sopravvivere mangiando e dormendo regolarmente.
Partire, sperando che non cerchi di fermarti qualche governante difensore delle patrie frontiere dagli stranieri (problema già trattato in precedenza). Governante che può sentenziare che non hai diritto di rischiare la vita per cercare un futuro migliore, entrando illegalmente in un paese civile (o presunto tale). E che invece devi restare a soffrire dove sei, aspettando pazientemente che gli stati civili (o presunti tali) ti aiutino a migliorare la vita “a casa tua”. Ammesso che una casa ce l’abbia, e che creda alle promesse di chi da secoli è abituato a non mantenerle…
La ragione (presunta nobile) di queste posizioni è che bisogna impedire il traffico di essere umani, colpendo i trafficanti. Quelli che ai partenti hanno rubato gli ultimi averi e li hanno violentati in ogni modo possibile, prima di imbarcarli in un natante, che sanno già non potrà arrivare a destinazione, e i naufraghi dovranno sperare qualcuno che li salvi dalle onde del mare.
Certo questi bisognerebbe colpirli, ma non tanto i giovani “scafisti”, che magari si prestano per partire gratis, bensì chi organizza i viaggi e ci guadagna sopra in modo infame. Ma quelli sono difficili da raggiungere e punire, perché sono protetti e garantiti dagli stessi governi che i paesi civili finanziano per migliorare la condizione di chi vorrebbe partire. E che invece ci comprano armi che fomentano le guerre da cui i profughi fuggono.
E’ più facile colpire le organizzazioni che salvano i dispersi in mare, con la scusa che di fatto aiutano la tratta degli esseri umani e l’immigrazione illegale. Basta non permettere di approdare nel “porto sicuro” così la smettono di spostare i partenti verso paesi che non possono, o non vogliono, accoglierli.
Ma finché ci sarà vita sulla Terra, ci saranno partenze verso un futuro migliore. Pur non sapendo qual è, e dove si trova e come.
Come diceva Kafka, la partenza è di per sé una meta di vita. Per questo si potranno dirottare altrove, ma non impedire i viaggi della speranza.
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