SONO UN VERO SPETTACOLO DI MODA GLI ABITI DA SPOSA, ESPOSTI IN VETRINA PER INVOGLIARE LE GIOVANI A PROGRAMMARE LE NOZZE.
Quando per sposarsi si andava in chiesa (in molti) o al municipio (pochi), quasi tutte le spose compravano un vestito costosissimo, peraltro da usare solo il giorno delle nozze.
Il vestito era bianco a testimonianza della verginità, colorato invece per chi aveva assaporato in anticipo le gioie dell’unione nuziale. Però questa differenziazione era difficile da dimostrare, e bisognava fidarsi della narrazione autobiografica della stessa (presunta) “vergine”, a meno che il frutto del piacere non fosse già evidente. Per cui le deroghe al colore del vestito diventarono sempre più numerose.
C’era però un altro onere a carico della sposa: la cosiddetta “dote” da portare al coniuge, usata fin dall’antichità e diffusa in molte culture del vostro mondo. Contributo alle spese della nuova famiglia, a guida patriarcale? Indennizzo per la perdita della eredità familiare della sposa? Obiettivo dei “cacciatori di dote”, per compensare qualche difetto della sposa desiderata?
Anticamente la dote poteva consistere in beni in natura, poi si convertì in corredi di lenzuola, biancheria più o meno intima, stoviglie, gioielli per i più abbienti. In Italia il diritto di famiglia l’ha formalmente abolita, ma perdura ancora in certi contesti. E può essere addirittura contrattata e registrata per riprenderla in caso di separazione.
A queste spese per la dotazione della figlia nubile, la famiglia della sposa doveva pure aggiungere quelle di compartecipazione alla festa di nozze, spesso più onerosa della dote stessa.
Si comprende perciò perché in tante famiglie i matrimoni delle sorelle dovevano essere scaglionati nel tempo, con precedenza all’anzianità, per non sovrapporre spese altrimenti non sostenibili.
E si comprende perché la nascita di una figlia femmina fosse considerata da alcuni una sventura. Non solo perché veniva a mancare l’erede maschio, ma perché bisognava cominciare ad accumulare risparmi avendo una figlia da maritare.
Si comprende meno un fenomeno diffuso in certi ambienti: la “fuitina” (fuga d’amore col promesso sposo) che esonerava dalle spese di nozze come punizione per entrambi. Fenomeno che veniva agevolato, quando addirittura non programmato, dalla stessa famiglia della sposa.
Adesso le cose sono cambiate.
Gli abiti da sposa stanno ancora in vetrina, continuano a costare tantissimo, ma sono sempre meno le donne che li acquistano. Perché diminuiscono i matrimoni (religiosi o civili che siano), e i giovani, spesso non più giovani, preferiscono la convivenza ritenendola forma di unione più moderna e meno impegnativa. Ad un “amore per sempre” sono sempre in meno a credere. Questa fluidità include una eventualità di separazione, come peraltro capita spesso nei matrimoni, ma senza gli oneri annessi e i fastidi burocratici. Vero è che in molti Stati le leggi tendono a tutelare le unioni di fatto (e i figli che ne derivano) analogamente ai matrimoni civili, ma il diritto di famiglia non può ignorare che la famiglia è cambiata.
La fluidità delle unioni comporta problemi nuovi, che riguardano le famiglie “ricomposte” (con nuovi membri), gli affidamenti dei figli, i rapporti con le famiglie originarie, la moltiplicazione dei nonni e dei fratelli acquisiti, la suddivisione aleatoria dei beni di una famiglia mai formalmente esistita. Problemi che non intendo affrontare: per la loro complessità richiederebbero la riscrittura dei trattati di sociologia e psicologia delle famiglie.
Mi limito ad ammirare le residue vetrine di sfarzosi abiti da sposa, che tra non molto potrebbero restare un antico ricordo…
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