AVEVAMO GIA’ PARLATO DEL LAVORO, IN OCCASIONE DELLA GIORNATA IN CUI SI “FESTEGGIANO” I LAVORATORI. ADESSO SONO DI ATTUALITÀ NEL VOSTRO PAESE LE POLEMICHE SUL “REDDITO DI CITTADINANZA”. SECONDO ALCUNI È UN MEZZO PER SOSTENERE CHI NON TROVA LAVORO, PER ALTRI INVECE È UN SUSSIDIO CONTROPRODUCENTE CHE DISTOGLIE DAL CERCARE LAVORO.

Chi ha istituito il reddito di cittadinanza ha messo in campo anche dei “navigator” che dovrebbero aiutare a lasciarlo per accettare un lavoro. Un lavoro qualunque, o quello che piacerebbe fare? Ma c’è questo lavoro che corrisponde ai desideri e alle capacità?

Alla ricerca del lavoro…

Vengono spesso citati i cosiddetti “neet” quelli, specialmente giovani, che non studiano, non lavorano, e non cercano né l’uno nell’altro. Chi li definisce rinunciatari o addirittura “mammoni” sfigati, dimentica che all’interno di questa categoria ci sono anche tanti giovani volenterosi ma non adeguatamente formati per i lavori che vengono richiesti. E tante donne che – per scelta o costrizione – fanno un lavoro casalingo, e dunque il tempo per studiare e lavorare al di là degli impegni domestici e della cura dei figli non ce l’avrebbero.  Questa è una contraddizione sociale che nessun reddito di cittadinanza può sanare. Tanti neet non sono contenti di esserlo, e farebbero altro, se qualcuno li aiutasse.

…sarà vero?

Ma cos’è realmente il lavoro di cui si parla, spesso genericamente?

C’è un lavoro inteso come maledizione: guadagnarsi da vivere con il “sudore della fronte” è ciò che fu imposto agli umani dopo la cacciata dal paradiso terreste. Leggenda, certo, ma con un significato profondo. Il lavoro è troppo spesso fatica, peso, noia, si fa solo per guadagnare ciò che fa vivere, E però spesso questo vivere, considerato il poco tempo libero che resta oltre la stanchezza alla fine della giornata lavorativa, non è altro che un sopravvivere. Vivere per il lavoro, non lavorare per vivere una vita soddisfacente.

Questo lavoro è fonte di angoscia quotidiana.  Amélie Nothomb in Diario di rondine ha descritto questa dimensione angosciante del lavoro: “Mi chiamo Tizio, sgobbo per conto di Caio, il mio lavoro consiste nel fare questo e quello. Sotterranea, l’angoscia avanza con il suo lavoro di trincea. La sua voce non si può completamente imbavagliare.”

Invece il lavoro scelto e ottenuto può piacere perché corrisponde alle proprie capacità e desideri. In questi casi si ha quello che i manuali chiamano “job engagement”: l’ideale investimento in una mansione che soddisfa e realizza. Ma quelli che realizzano questo ideale sono abbastanza pochi per dire che sono la regola, sono piuttosto una eccezione.

C’ ancora un altro caso. L’eccessivo coinvolgimento porta a considerare il lavoro l’unica ragione di vita. Non c’è svago, non c’è piacere al di fuori del lavoro, che diventa la divinità cui si sacrifica tutto, famiglia compresa. I manuali chiamano questa condizione “workaholism”, cioè dipendenza patologica dal lavoro. Come una vera droga dalla quale è difficile separarsi. Van Gogh (che qualche problema psicologico lo aveva…) scriveva al fratello: “solo allora mi sento ancora vivo: quando lavoro come un forsennato”.

C’è ancora un’altra categoria, di cui tutti purtroppo abbiamo esempi quotidiani. Quella di chi riesce ad ottenere un lavoro, ma lo fa poco o male. Gli sfaticati che rinviano il loro lavoro o lo scaricano sugli altri. Questa categoria è diffusa proprio tra chi ha un lavoro “sicuro” e guadagna bene, anche se lavora meno di quanto dovrebbe. A questi bisognerebbe togliere il lavoro che non sanno o non vogliono fare, o comunque pagarli solo per il lavoro effettivo ed efficace. Altrimenti restano un peso per la società dalla quale prendono senza dare.

Insomma, il lavoro è una cosa complessa e bisognerebbe parlarne con meno superficialità e semplificazioni. A cominciare da chi dovrebbe lavorare per assicurare un lavoro, dignitoso, per tutti.