PIÙ VOLTE RILEGGENDO LA STORIA NE ABBIAMO TRATTO SPUNTI DI RIFLESSIONE PER LA REALTÀ ATTUALE.
TORNO ANCORA SULLA STORIA AMERICANA DI UN SECOLO FA, CHE MOLTO SOMIGLIA A QUELLA DI OGGI.

La politica del presidente Trump lascia perplessi, anche per il linguaggio che la accompagna, inusuale per un capo di Stato. Ma, a parte il modo di comunicare, questa politica non fa che ripetere quanto già accaduto un secolo fa.

Dopo la prima guerra mondiale, che aveva visto gli americani impegnati ad aiutare l’Europa, il presidente democratico Wilson aveva firmato il trattato di Versailles e fondato la Società delle Nazioni per assicurare il mantenimento della pace nel mondo. Ma venne clamorosamente sconfessato dal Senato a maggioranza repubblicana, che interpretava il risentimento dell’opinione pubblica contro un presidente che si impegnava troppo nella politica estera trascurando la nazione che lo aveva eletto. Il trattato non fu ratificato, e gli Stati Uniti restarono fuori dalla società internazionale che avevano promossa.

Nello stesso anno 1920 le elezioni – le prime in cui votavano le donne – furono vinte largamente dal repubblicano Harding.
I primi provvedimenti del nuovo presidente, coerenti con le promesse elettorali che l’avevano portato al successo, furono l’aumento dei dazi sui prodotti importati dall’estero, e una drastica riduzione dell’immigrazione. Inoltre, lo sganciamento dagli accordi internazionali, se non garantivano la supremazia statunitense e l’interesse della nazione: “America first”, e “America to Americans“.
Protezionismo economico, rifiuto degli immigrati stranieri, isolazionismo in politica estera (tranne dove conviene economicamente). Esattamente ciò che sta facendo Trump cento anni dopo.

Ma quali furono le conseguenze di questa politica nel decennio seguente?

L’intolleranza verso gli stranieri portò a procedure di controllo dell’immigrazione al limite della disumanità (di cui abbiamo già parlato). Portò anche a processi sommari, come quello degli immigrati italiani Sacco e Vanzetti, anarchici condannati a morte per un omicidio mai provato, poi riconosciuti innocenti ma solo mezzo secolo dopo la loro esecuzione capitale.
La difesa dell’americanismo genuino fu supportato dai tradizionalisti del WASP (White Anglo-Saxon Protestant), mentre aumentavano a 5 milioni gli aderenti al Ku Klux Klan, fautori di un razzismo violento fino all’omicidio degli odiati neri.
Allo stesso tempo, per salvaguardare l’integrità morale del popolo americano, si proibiva la fabbricazione e la vendita di alcolici. Questo provocò paradossalmente un mercato illegale e l’aumento della criminalità per il diffuso contrabbando gestito dai gangster.

A questa ondata di misure reazionarie si accompagnavano, nell’industria, provvedimenti per aumentare la produzione, mediante quella che veniva definita “organizzazione scientifica del lavoro”.
Nei ruggenti anni venti la prosperità e i consumi aumentavano nei ceti medio-alti urbani, mentre i contadini lasciavano le campagne meno redditizie per cercare fortuna in città. Il “sogno americano” andava a vantaggio di alcuni, mentre per molti altri il sogno diventava un incubo, come racconta Steinbeck nel romanzo “Furore”.

I progressi sbandierati dai mass-media come il moltiplicarsi degli spettacolari grattacieli, i successi dell’industria cinematografica e del Jazz, l’emancipazione femminile, non riuscivano a compensare gli squilibri sociali che promettevano “il più alto livello di vita al mondo”, ma lasciavano troppa gente fuori dal benessere consumistico promesso dalla pubblicità.

Il più elevato livello di vita nel mondo” , promette il manifesto davanti al quale fanno la fila poveri e disoccupati in cerca di sussidi (American way, photo by Margaret Bourke-White, 1937)

L’instabile equilibrio sociale venne presto sconvolto da fattori incontrollati, che il governo liberista in politica economica non riuscì a prevedere né ad arginare. Diverse concause provocarono il disastroso crollo della borsa nel 1929. Il potere d’acquisto delle famiglie non cresceva nonostante l’aumento di investimenti e di produttività. La continua espansione del credito con tassi tenuti bassi in modo artificiale, gli eccessivi prestiti a scopi speculativi, una politica monetaria inadeguata alla realtà finanziaria, portarono al tracollo che lasciò in rovina imprese e risparmiatori.

La profonda depressione economica dagli Stati Uniti dilagò presto in tutta la finanza mondiale. Fenomeni con legami causali reciproci, dato che diversi storici dell’economia considerano il crollo di Wall Street nel martedì nero del 1929 un sintomo di una crisi economica già in atto.

La reazione del presidente Hoover fu impulsiva e irrazionale. Alzò ancora i dazi sulle merci straniere, pensando così di proteggere l’industria nazionale e arginare licenziamenti e disoccupazione dilagante. Invece le prevedibili ritorsioni delle altre nazioni e la diminuzione delle esportazioni peggiorarono ulteriormente l’economia statunitense. I disoccupati salirono a 13 milioni, uno su quattro lavoratori, e i sussidi assistenziali venivano rifiutati perché troppo onerosi.

Finché la popolazione comprese che bisognava cambiare pagina.
Le elezioni del 1932 videro la vittoria a grande maggioranza del democratico Roosevelt, paralizzato dalla poliomielite ma con una ferrea volontà di cambiamento. Il nuovo presidente avviò il “New deal”, il nuovo corso di politica economica opposta al liberismo dei suoi predecessori repubblicani. Una sua frase restò famosa: “La misura della ricostruzione dipenderà da come sapremo applicare alla società valori diversi e più nobili del semplice profitto commerciale”.

Il suo capitalismo democratico, cercando di diminuire le disuguaglianze e il malessere sociale, divenne una alternativa credibile alle dittature che in quel periodo si instauravano nel continente europeo.

“Passa la bandiera” (The flag is passing, photo by Edward Farbr, 1941)

Rileggendo, insieme ai miei superiori alieni, queste pagine di storia di un secolo fa abbiamo trovato tante analogie con la politica economica attuale.

Le “sparate” trumpiane, che perturbano il mondo, non sono solo frutto dell’imprevedibile impulsività di un personaggio spregiudicato e moralmente discutibile. Questi proclami, apparentemente insani, in realtà mettono in pratica la teoria secondo cui il Presidente deve essere il manager di uno Stato gestito come un’azienda.
Altro che applicare “valori diversi e più nobili del semplice profitto commerciale” proposti dal New Deal rooseveltiano…
I valori derivano dal “pensiero neoreazionario” come quello da tempo propagandato da Curtis Yarvis, un informatico passato alla (pseudo)filosofia politica, esposta in blog molto seguiti. Il movimento “Dark Enlightment” è contro la democrazia, l’egualitarismo, il “politicamente corretto”, e a favore del suprematismo e del razzismo. Esperti (veri) di politica economica hanno definito questa teoria “tecno-feudalesimo” e “una accelerazione del capitalismo verso il fascismo”.

Ad essa si sono ispirati Trump, il vicepresidente Vance, e Musk messo a capo del Dipartimento per l’Efficienza dello Stato, per smontare la politica assistenziale e tagliare i fondi alla Sanità pubblica, affermando il suprematismo, il liberismo e il protezionismo economico. Come cento anni fa succedeva negli stessi Stati Uniti, con le deleterie conseguenze descritte sopra.

Musk, che manager aziendale lo è davvero, si è già accorto dopo pochi mesi che la strategia cui aveva aderito ha delle falle enormi, e si è tirato indietro, anche per difendere i propri interessi.
Ma molta parte della popolazione che ha supportato Trump crede ancora alla propaganda secondo cui il “capo” agisce nell’interesse supremo della Nazione. Come da sempre crede chi sostiene i regimi autoritari.

Quali danni devono essere provocati all’economia (anche mondiale) perché il popolo americano usi il residuo di democrazia ancora esistente per dismettere i manager dello stato-azienda, e si torni ad un moderno “New Deal”?
La storia può ancora insegnare qualcosa?